di Francesca Amadahy Più
È grave non aver capito che questa situazione attuale è molto complessa, da ogni punto di vista: non può, in nessun modo, essere semplificata.
È insufficiente, e tossico, ciò che stiamo facendo a livello comunicativo, sociale e relazionale.
Ci stiamo avvelenando, incattivendo, isolando, creando “clan di eletti” nei quali sprigionare il nostro senso di branco e appartenenza.
Di certezze assolute non ne abbiamo, proprio perché non funziona così la ricerca, la filosofia, la scienza, la vita, l’esperienza personale: sono le domande che portano avanti il processo di crescita, scoperta e cambiamento, non le risposte ermetiche e circoscritte create per confortare e nascondere sotto il tappeto la paura di non sapere, di osservare il mistero.
Perché è assai complesso accettare il fatto che siamo davvero piccoli, piccolissimi, rispetto ad un quadro infinitamente enorme, incommensurabile, ed in continua espansione.
Perché abbiamo queste “sicurezze” così severe rispetto ai nostri punti di vista? Perché viviamo i punti di vista degli altri con il giudizio di “marionetta lobotomizzata del sistema”, o da “incivile ignorante ed irresponsabile”, augurando le peggio cose a chi non appoggia il nostro ragionamento?
Perché, a mio parere, abbiamo tanta, tantissima paura di qualche falla nel nostro modo di vivere.
Chissà, forse non è proprio come pensiamo, forse è estremamente più complesso che scegliere A o B, la famigerata pillola rossa o pillola blu.
Siamo terrorizzati di non avere certezze assolute nelle quali fondare i nostri pensieri, e diventiamo aggressivi, difensivi e incattiviti per ripararci da questo dubbio così attanagliante che bisbiglia incessantemente “e se non fosse come dico io? Se non fosse semplice come penso?”.
La nostra stasi vuole conferme, non dubbi che la mettano in discussione.
E allora ci circondiamo di persone che ci danno ragione, ricerchiamo ciò che conferma le nostre ipotesi, perdendo la visione di insieme ed ogni occasione di confronto sano e nutriente.
Perché diciamoci la verità, a noi cambiare spaventa tantissimo. Siamo abituati a ricercare la sicurezza e la stabilità: chi ci ha mai insegnato ad essere flessibili, antifragili, e pronti al cambiamento necessario, in ascolto e connessione ricettiva con l’ambiente?
E ritenerci responsabili di questa situazione (non colpevoli, ma respons-abili) è qualcosa che spazza via la certezza di scaricare al nemico – qualsiasi sia – ogni frustrazione, così da giustificare il nostro non cambiare, non agire.
C’è chi è più colpevole di altri in modo oggettivo, questo è certo, ma ognuno di noi è responsabile… ed è fin troppo comodo incolpare semplicemente il governo, la società, o chi fa scelte che non condividiamo affatto e che riteniamo stupide, ignoranti, irresponsabili, da “pecoroni”… senza metterci in gioco, ingannandoci continuamente.
Riversiamo veleno verso l’altro, continuando ad alimentare un circolo tossico che ci rende dipendenti, consumisti, fazionisti ed intolleranti, rendendoci così sempre più arroccati e chiusi, a guardia cieca del nostro giardino, fregandocene degli altri e del bene comune.
Fin dove vogliamo arrivare?
Che cosa vogliamo dare al mondo, a noi stessi?
Sono poche le cose davvero certe in questo periodo, ma tra le certezze si annoverano queste affermazioni condivise all’unanimità dalla comunità scientifica (e da chi le vive già nel quotidiano):
stiamo distruggendo l’ambiente e la biodiversità, stiamo decimando interi habitat e abbattendo foreste, inquinando falde acquifere e aria, sciogliendo il permafrost, sviluppando sempre più antibiotico resistenza, ed aumentando passibilità di spillover, dovuti principalmente allo sfruttamento animale e ambientale.
E ciò è causa della stragrande maggioranza dei nostri problemi, anche quelli più discussi in questo periodo.
Sistemi sanitari in ginocchio, nuove malattie, sempre più classismo e povertà, carestie, cataclismi e clima sempre più imprevedibile, perdita di biodiversità e ossigeno, nuovi problemi di salute, ancor più nuove malattie.
Perché sì, tutto quello che sta succedendo è, tra le tante cose, incredibilmente classista.
Perché chi viene colpito maggiormente è chi non ha abbastanza soldi o possibilità di curarsi, chi non ha una casa, cibo o acqua potabile, chi non ha un riparo, chi non riesce ad arrivare a fine mese, chi ha persone vicine che dipendono dalle sue azioni (senza contare le altre specie viventi non umane).
Chi viene colpito maggiormente è chi non ha possibilità di scegliere, né di cambiare.
Se non fosse un problema di classe ed economico, staremo già lavorando da tempo sulla parità, sulla salvaguardia ambientale, sulle cure e risorse accessibili a tutti, sul rendere davvero il benessere, nostro e degli altri esseri viventi, la priorità assoluta.
Perché in un momento di emergenza c’è bisogno di mettere cerotti e “improvvisare”, ed è completamente lecito sbagliare e ricalibrare il tiro, soprattutto in una società classista e consumistica che non è affatto pronta a situazioni di emergenza, e che se si “ferma” crolla.
Bisogna però, sopra ogni cosa, ricostruire e creare qualcosa di sano e nuovo dalle fondamenta, evitando sempre di più i processi che hanno portato a tutto quello che stiamo vivendo oggi, e che vivremo sempre più se non si risanano le radici.
A meno che non si voglia continuare ad utilizzare cerotti per tamponare una ferita infetta.
Questo discorso, quando fatto, viene sommerso – soprattutto ultimamente – da benaltrismo così denso da poter essere tagliato con un coltello, ma che sembra metta d’accordo un po’ tutte le fazioni più accese.
“I problemi sono altri” “le solite Gretinate” “la crisi climatica è una bufala dei poteri forti” “la crisi climatica è una bufala della scienza venduta prov*x” “la crisi climatica è una bufala dei terrapiattisti nov*x” “e poi io la differenziata la faccio, non rompere”.
Personalmente mi sono davvero stancata.
Tanto, tanto stancata di sentire tutti questi discorsi che non contemplano nemmeno un briciolo di bene comune, empatia e responsabilità.
Perché non capiamo che il problema è di tutti, qualsiasi ideologia, stile di vita o pensiero si abbia, e che sta già dilaniando le vite di chi è colpito da classismo e discriminazioni sociali.
Non comprendendo che i prossimi saremo – e siamo già ora, anche se in maniera più indiretta – inevitabilmente ed irrimediabilmente tutti quanti.
Una società la nostra che, a mio parere, potrebbe essere salvata solo dalla creatività, dalla comunicazione empatica, dalla ricettività ambientale, dall’ascolto presente.
Potrebbe salvarci l’affrontare il mistero di ciò che è e che sarà prendendoci mano nella mano, pronti a fluire con esso ed imparare, spinti dalla bussola del bene comune.
Creare qualcosa di nuovo, di mai fatto, fuori dagli schemi… farsi domande, insieme, rispettando la complessità e le divergenze, senza cadere nella bramosia delle risposte pronte e chiuse, già sentite e già vissute, già usate e confezionate.
Perché l’esperienza può essere un trampolino verso l’ignoto creativo, mentre ad oggi la utilizziamo principalmente per non cambiare nulla, o quasi.
Perché se non c’è spinta creativa, divergente e condivisiva, anche con le migliori intenzioni si andrebbe a ricostruire una società con gli stessi principi classisti della vecchia, solo un po’ più nascosti e subdoli, indossando la maglietta verde.
Perché la scienza non può fare a meno dell’arte, e viceversa.
Dobbiamo più che mai unire i due mondi, e vedere cosa si crea nella collisione.
Chissà se saremo pronti a prendere in considerazione tutto questo, o almeno a pensarci, prima che sia troppo tardi.